È andata in scena ieri al Teatro Vittorio Emanuele di Messina la prima de “Il Nodo”, di Johnna Adams, opera teatrale che ha visto protagoniste di una attualissima tragedia quotidiana, le immense Ambra Angiolini e Arianna Sommegna.
Le due attrici hanno incatenato alle poltrone il pubblico, stregandolo con una interpretazione intensa e struggente: a tratti intima e sussurrata, ma prevalentemente coraggiosa e potente come un pugno sferrato con energia allo stomaco.
Nel microcosmo che le due attrici portano in scena, c’è l’universo immobile e al contempo vorticante dei rapporti genitori-figli, c’è il volto distratto di una scuola assente e “vinta”, incapace di “educare” gli adulti di domani, c’è il rifiuto della società nei confronti del diverso, dell’atipico, che negli adolescenti prende forma in quella prematura forma di violenza ribattezzata bullismo.
Sensazioni acuite dalla scenografia che rispecchia un’aula scolastica che si palesa con un abile gioco di prospettive, distorta, sbilenca, quasi instabile nella sua immobilità.
Il Nodo, infatti, è ambientato in una classe di prima media della scuola pubblica di Lake Forest, piccolo centro abitato nei dintorni di Chicago, qui una madre cerca risposte che possano placare i suoi inconfessabili dubbi. A farle da contraltare, il dolore di una insegnante che maschera con un’apparente distrazione, il bisogno di sfuggire a responsabilità che sente anche sue, una istitutrice che idealmente scappa dal peso di dover guardare quella madre orfana di un figlio che ha deciso di togliersi la vita pur di non essere più vessato e intrappolato in un corpo che lo etichetta come uomo sebbene il suo animo non avesse ancora svelato la propria reale natura.
L’angoscia di quella madre trova paradossalmente, il suo culmine quando sarà lei a consolare l’insegnante che soffre perché costretta a sopprime quel gatto suo compagno di vita, che diviene metafora della perdita.
Sarà una disperata mamma Angiolini a spingere la professoressa ad accompagnare la bestiola nel suo ultimo viaggio, a sussurrarle di stringere a se la creatura, a dirle di guardala negli occhi nei suoi ultimi attimi. Gesti che al contrario a lei, madre di un figlio morto suicidato a tredici anni, sono stati negati ed è in quel preciso attimo che lo spettatore ne assorbe il dolore, lo fa proprio, espiando il peccato di quella mamma che non riesce a perdonare se stessa per non avere visto, per non avere voluto comprendere la fragilità di quel figlio “interrotto” che mai più potrà stringere a sè.